martedì 15 marzo 2011

Mzungu habari?

Qui a Marsabit si aspettano le piogge. O anche solo una pioggia.
Secondo alcuni dovrebbero iniziare oggi, secondo altri alla fine del mese. Vedremo.
Intanto il clima è cambiato, sembra incredibile ma ieri mattina Milano ci faceva un baffo. La nebbia è spessa, umida, scende bassa e copre tutto. A lei va aggiunto il vento costante e la terra rossa che si appiccica, umidiccia, dappertutto. Insomma camminare per strada a Marsabit non è così semplice come farlo sul lungo mare di Loano. Ma dopo un po' ci si abitua.
C'è una cosa a cui, però, faccio fatica ad abituarmi, posso sintetizzarlo con “il colore della mia pelle”. Ok, forse sono gli altri che non si abituano, ma provo a spiegarmi meglio.
Sta storia che in Africa si vogliono tutti bene, che l'accoglienza è enorme e che tutti si salutano per strada è una favola inventata di sana pianta.
Se sei nero in mezzo a neri, nessuno ti saluta se non ti conosce.
Se sei bianco in mezzo a neri, però, tutti (o quasi) ti salutano. I bambini invece non ti salutano: inneggiano a te. Se poi questo inneggiare sia simpatico e affettuoso, o solamente una presa in giro non l'ho ancora capito.
La scena è questa. Erika, in versione Fantozzi contro tutti, tenta di mantenere l'equilibrio sullo stradone che porta in town combattendo una lotta silenziosa contro il vento e la sabbia alzata dalle macchine e dai lorry di passaggio. Da lontano un gruppo di bambini si accorge di lei: bianca, bionda, con i pantaloni e un andamento imbarazzante. E inizia il carosello: MZUNGU HABARI? HOW ARE YOU? MZUNGU HABARI, SISTERRRRRRRR, SISTAAAAAAAA... urlato allo sfinimento fino a quando io sono a portata di vista. Rispondere in inglese e in swaili è inutile, anche Perché alcuni si fanno domanda e si danno risposta da soli: MZUNGUHOWARETOUFINE...
Al di là del fatto che ci sono volte in cui vorrei solo farli stare zitti tutti e fargli presente che non sono la prima mzungu che passa a Marsabit e che chiedermi come sto mentre sto facendo una fatica boia è da maleducati, mi chiedo poi cosa rappresenti la mia persona agli occhi di questi bambini. E anche agli occhi degli adulti che mi salutano ridendo o che dicono ai figli di salutarmi (SEMA MZUNGU HABARI...)
Non so ho alcune ipotesi, ma è difficile capire a fondo questo rapporto mzungu- mwafrika...
Dunque, potrei rappresentare il benessere. La mia pelle parla chiaro, arrivo dalla parte ricca del mondo. Anche i miei vestiti parlano chiaro, le mie scarpe e la mia borsa. La mia macchina fotografica (anche se quasi mai è esposta...) poi parla chiarissimo. (Alcuni bambini chiedono dei soldi... “dammi i soldi”, rispondo in swahili: “akuna pesa...” (nessun soldo) e se ne vanno delusi). Rappresento un benessere che non possiedo e, di conseguenza, un rapporto di dipendenza e un modo di rapportarsi all'altro (richiesta - “elemosina”) che non mi va di rappresentare.
Sicuramente rappresento la Chiesa. Infatti mi chiamano Sister, come chiamano tutte le suore e tutte le bianche. Ho scoperto che i bambini chiamano mzungu anche le sisters di colore... questo è significativo dell'identificazione tra l'essere bianco e il mondo missionario. Sono poi una donna adulta (ben oltre l'età da marito) fuori casa da sola, non posso che essere una suora, no? Peccato che io non sono una suora e nemmeno lo diventerò...
E, infine, sono l'incarnazione della diversità, del diverso in quanto tale. La stessa parola mzungu è indicativa. Indica il bianco, ma prima ancora indica un qualcosa di alieno, di diverso e non sempre l'accezione è positiva. Per questo mi infastidiscono gli adulti e non i bambini. I bambini mi guardano solo con stupore, uno stupore innocente e basta. Gli adulti che mi guardano, che parlano di me tra di loro in borana fissandomi, che mi osservano manco fossi un alieno appunto, a questi vorrei proprio rispondere per le rime a volte.
Portare tutti questi significati scritti addosso non sempre è facile. Forse i primi tempi mi pesava di meno. Ora che ho preso un po' di confidenza con le cose, con i tempi e i modi, io per prima sento meno la differenza, anzi a volte non la sento proprio. Le urla dei bambini per strada mi ricordano questa pelle bianca che tante cose ha tatuate su di sé in quanto tale e mi infastidisce perché vorrei solo essere me stessa, senza nessun colore addosso. Il problema è che non posso non essere bianca, fuori e anche dentro, a volte.
Forse questo post potrà partecipare alla sagra delle banalità, però è forte a volte l'impatto di certe banalità, quando si è fuori casa. Questo giro lungo che l'antropologia costringe a compiere è forse una delle cose della cui utilità ed essenzialità per la nostra vita mi sono resa conto in questo tempo. Un giro lungo, in mezzo al diverso che ti richiede di spogliarti del tuo essere, delle tue abitudini, dei tuoi modi di fare per accedere ad altri, lontani e incomprensibili, e, solo dopo, per capire i tuoi.

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